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Chi vive, o ha vissuto, il mondo delle cucine professionali dall'interno non può non riscontrare l'aderenza delle vicende descritte alla realtà. Con l'avvento di recenti programmi TV i cuochi sono ormai alla stregua delle rockstar, ma qual è la vera vita nelle cucine? Nepotismo, sfruttamento, assenza di legalità, droga, legami tanto intensi quando caduchi. Una testimonianza precisa scritta in modo leggero.
Leonardo e' l'anti cuoco patinato. Uno che racconta la fatica e le ingiustizie del lavorare in cucina in Italia, tra lavoro nero e droga a fiumi, pure in ristoranti di alto livello, ed è tutto vero! Scritto benissimo, le lauree servono ancora a qualcosa, le prime 10 pagine valgono da sole l'acquisto del libro. Consigliato
Recensioni
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Leonardo Lucarelli racconta, in prima persona, la sua vita da vero cuoco descrivendoci la cucina in cui i grembiuli sono sporchi di sugo e i piani di lavori sono pieni di farina e coltelli.
Quante volte quella manciata di parole che c’è prima della storia che stiamo per leggere ci dice tutto e niente? Quante, dopo aver terminato la storia, sembra che ci dica ancora meno?
Alla sua, di storia, Lucarelli premette uno splendido esergo dalla Chiave a stella di Primo Levi: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”. Leonardo Lucarelli invece l’ha imparata, anche se forse non lo sa da subito.
In questa storia ci muoviamo in un mondo perfettamente ribaltato rispetto a quello delle cucine satinate a cui ci ha abituato la televisione. Il cuoco, vero, di quest’autobiografia ci porta in giro per mezza Italia, a tratti anche fuori, passeggeri delle sue moto e spettatori sconcertati in cucine in cui è stato da lavapiatti a chef, appunto, per mostrarci una realtà che ci fa venire sempre più voglia di leggere.
Ebbene, vi spoileriamo, questo signore un cuoco alla fine lo è, e ci spiega che niente quanto essere stato un lavapiatti gli ha fatto capire bene la serietà, la bellezza, del suo mestiere.
Ce lo fa capire quando, nella cucina di un ristorante da cui andrà via alla velocità della luce – ma ne lascerà tanti altri allo stesso modo – un litigio sarà letteralmente congelato, sospeso, ‘abbattuto’, proprio come in un abbattitore, perché inizia il servizio e conta solo che escano i piatti. All’occorrenza, si può poi uscire per fare a pugni, ma non prima di essersi occupati, uno per uno, di ogni cliente presente in sala.
Ce lo fa capire come fanno i bambini, raccontandoci che cucinare non conta niente, che contano solo i soldi,
che è un mestiere che vale qualunque altro, che non lo ha scelto, che gli è capitato di farsi piacere persino la chimica pur di arrivare al risultato di cui ‘non’ gli importa.
Ce lo fa capire, soprattutto, in una lingua franca e diretta, non satinata, esattamente come le cucine che ha frequentato, dov’è cresciuto. Il suo è un percorso che passa per uno scambio onesto col lettore: prendendo in giro con leggerezza l’ennesima famiglia irrisolta, la sua; mettendoci sotto gli occhi senza ammiccamenti il circo di reietti che ha incontrato in cucina, come chi ha conti in sospeso con la legge, chi è dipendente da sostanze – a partire da lui – chi paga in nero, cioè tutti.
È un percorso onesto anche sul possibilismo relativo al racconto della sua storia e allo scrivere stesso, a cui risponde come quando ha cominciato a entrare sempre più spesso in cucina: arrivando fino alla fine.
Capiamo, arrivati in fondo, la risposta alla domanda che tutti ci siamo fatti – forse ancora ci facciamo – su cosa fare da grandi. Tutte le volte che torna a casa, parla con quella che potremmo definire la sua parte migliore, l’inseparabile amico Matteo, anche quando se ne separerà grillo parlante di poche sillabe, ma a quanto pare sempre quelle giuste: gli ricordano, infatti, che non avrebbe potuto, non avrebbe voluto fare nient’altro, che continua a non volerlo.
Perché, in realtà, forse si può dire che quello di Lucarelli è un romanzo di formazione, in cui la strada è stata dritta per una ragione semplice: che in cucina sta bene, che tutti torniamo sempre alla nostra linea, dei primi della carne degli antipasti, la linea che abbiamo nella testa, che – si può ancora dire? – ci ossigena meglio cuore e polmoni. Perché «l’amare il proprio lavoro… costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra».
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