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Anno edizione: 2017
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Indice
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Era del tempo che non leggevo un romanzo, di un autore contemporaneo, che sapesse avvolgermi e parlarmi al cuore. Questo lo ha fatto. Da leggere.
Romanzo magnetico, potente, in cui la fissità della scena viene movimentata dai dialoghi dei due protagonisti, un vecchio e un giovane, separati da una bottiglia di grappa. Unico spettatore di questo singolar tenzone è (il fantasma di?) una lince dagli occhi gialli come il sole che tarda ad arrivare durante una notte lunga e densa di matasse da sbrogliare col solo ausilio della parola. Da leggere davanti ad un camino e in totale silenzio e solitudine.
Libro di rara qualità narrativa e stilistica, il giro del miele si svolge tutto in una notte ed è al tempo stesso un incontro e una resa dei conti, un flusso di ricordi e una confessione. Cosa spinge Davide a bussare alla porta di Giampiero? L'autore dissemina il libro di episodi della vita di entrambi i protagonisti, vite intrecciate nel bene e nel male, che attraverso un continuo gioco di rimandi porta il lettore all'epilogo. Ricorda la scrittura di Nico Orengo, sia nelle descrizioni che nel ritmo dei dialoghi, mai troppo lunghi ma sempre significativi, in cui i termini non sono mai scelti a caso. Ottima prova.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Mi chiedo se la lince sia là dietro; da me si farebbe vedere? Dov’è? La lince si muove in silenzio, da qualche parte, qui fuori. Se custodisce un segreto, dovremo offrirle in cambio qualcosa, perché ce lo riveli.
È la lince, ad accoglierci. Lì, sulla copertina, con quel suo sguardo di avvertimento, di minaccia, quasi. Ci conduce in una casa dell’Appennino tosco-emiliano, immersa nel buio della notte. All’interno, una bottiglia di grappa, due bicchieri, il fuoco di un camino che diffonde una luce calda e instabile e dipinge mostri sulle pareti. E due uomini, soli in una stanza, seduti al tavolo, che si scambiano silenzi, segreti, bugie e sofferenze. A scandire il tempo di quella notte, il riempirsi e svuotarsi dei bicchieri e le tacche incise sulla bottiglia, segni del limite fino al quale i due possono spingersi.
Da una parte del tavolo c’è Davide, con un matrimonio fallito alle spalle ma ancora innamorato della Silvia. Un uomo semplice, un ragazzo fragile e insicuro prigioniero nel corpo di un adulto, che si definisce un «buono di nulla» perché privo di coraggio e determinazione. Se ha perso tutto ciò che di bello aveva costruito nella vita, è stato perché ha sempre vissuto nella paura di perderlo. Dall’altra parte Giampiero, aiutante del padre di Davide nella storica falegnameria. Sposato con l’Ida praticamente da sempre, non si è quasi reso conto di aver avuto una vita felice, l’ha vissuta e basta, senza pensarci troppo.
Mentre fuori il vento infuria sempre più forte e una lince sembra aggirarsi nel bosco, i due uomini si raccontano i loro segreti, in una confessione notturna che ripercorre le loro esistenze, ognuno con la propria versione della storia: il rapporto difficile e ricco di fraintendimenti tra Davide e suo padre, e quello più intimo ma non meno silenzioso con la sorella; l’incendio che ha lasciato Giampiero con una mano carbonizzata; l’amore di Davide per le api, esseri fragili come lui, e come lui pieni di voglia di resistere; e la fine di un amore, che ha condotto la Silvia lontano dal paese e ha lasciato Davide in balia dell’alcol e della violenza. La notte scivola via lenta, il dialogo prende sempre più forza. Se si interrompe, qualche volta, è perché qualcuno si alza a ravvivare il fuoco del camino.
Sandro Campani ci racconta la storia di questi uomini con un linguaggio concreto e incontaminato, che ha il sapore della terra e l’odore umido dei boschi, e che non teme di chiamare le cose con il proprio nome, senza bisogno di allusioni. La scrittura corre precisa e meticolosa, a tratti nostalgica. Ci trasporta nel ricordo di quello che è stato e non sarà più, tra pagine cariche di commozione e lacrime e sconfitta, verso un finale splendido e suggestivo, che ci invita a tenere duro, a farci forza e ad accettare quello che siamo stati e saremo. E quando chiuderemo il libro per l’ultima volta e ci soffermeremo a guardare la copertina, noteremo che la minaccia che vedevamo negli occhi della lince è scomparsa, e ha lasciato il posto a uno sguardo protettore.
Recensione di Mauro Ciusani
Il nuovo romanzo di Sandro Campani, Il giro del miele (Einaudi, 2017), ambientato in un paese dell’appennino modenese, si apre con l’immagine potente del fuoco.
Il fuoco lo troviamo nel sogno che fa Giampiero, uno dei due protagonisti del romanzo. Ma anche fuori, poiché Giampiero si è assopito davanti al caminetto acceso. Nel sogno, un fuoco – ben diverso da quello addomesticato del caminetto – ha avvolto alcune capanne. In questa prima scena troviamo un doppio filo che correrà per tutto il romanzo: il fuoco, al pari dei rapporti umani, può essere sia distruttivo sia accogliente.
Alle immagini del sogno si mescolano dei rumori che provengono da fuori: forse qualcuno che bussa, forse no; poi il campanello suona e Giampiero va ad aprire. Alla porta c’è Davide. È il figlio di Uliano, il proprietario della falegnameria nella quale Giampiero ha lavorato per tutta la vita, prima di arrivare a rilevarla insieme a un socio. È da molto tempo che non si vedono. Davide ha cercato la propria strada al largo dalla falegnameria, e da suo padre, dal quale non si è mai sentito riconosciuto come un erede, come qualcuno capace di portare avanti l’attività di famiglia; questo ruolo è toccato a Giampiero. Nasce forse da qui quel senso di mancanza che lo ha portato a cercare un completamento in lavori diversi e in un matrimonio, adesso finito, con Silvia. Davide era riuscito a costruire un proprio mondo lontano da suo padre, inventandosi apicoltore, sposando la persona che aveva amato fin dall’infanzia, e poi, quel mondo, lo aveva pian piano cominciato a rovinare.
Il romanzo ci parla in maniera potente e mirabile di questa caduta, di come la felicità sia necessaria ma fragile. Poiché Giampiero è rimasto in contatto con Silvia, Davide gli chiede di consegnarle una lettera. E poi vuole parlare, vuole raccontare la sua versione dei fatti su come sono andate le cose tra lui e Silvia.
Inizia un lungo dialogo, davanti a una bottiglia di grappa, che va avanti per tutta la notte. Si svelano frase dopo frase i particolari di una storia forte che il lettore scopre attraverso la voce di Giampiero. Una voce amichevole che assume spesso il punto di vista degli altri personaggi, nei confronti dei quali ha un rispetto e una pietà commoventi. La lingua è precisa, avvolgente e colloquiale; incorpora di tanto in tanto, oltre a singoli elementi lessicali, anche aspetti sintattici dialettali che ne fanno una lingua nuova, personalissima. Una lince appare di tanto in tanto nella narrazione: un ricordo o una testimonianza fugace di qualcuno. Poi sparisce, lasciando un senso di mistero e di inquietudine che inquina il racconto nel quale eravamo immersi. Da dove veniva fuori? E perché?
È un’apparizione apparentemente inspiegabile che assomiglia tanto a quegli elementi neri, profondi e insondabili che si trovano dentro l’animo umano.
Recensione di Carmelo Vetrano
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