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Le prime frasi del libro
Io sono lo scrittore.
È così che mi chiamano tutti. I miei amici, i miei genitori, i miei parenti, e anche le persone che non conosco e che tuttavia mi riconoscono in un luogo pubblico e mi dicono: “Lei non è quello scrittore...?” Io sono lo scrittore: è la mia identità.
La gente crede che, in quanto scrittore, la tua vita sia abbastanza tranquilla. Recentemente un mio amico, dopo essersi lamentato per i suoi spostamenti quotidiani tra casa e ufficio, mi ha detto: “Tu, in fondo, la mattina ti alzi, ti siedi alla scrivania e scrivi. Tutto qua.” Non gli ho risposto niente, forse per lo sconforto di rendermi conto fino a che punto, nell’immaginario collettivo, il mio lavoro consista nel non far niente. La gente pensa che non combini nulla, ma è proprio quando non fai niente che lavori di più.
Scrivere un libro è come aprire una colonia estiva. La tua vita, in genere solitaria e tranquilla, viene improvvisamente scombussolata da una moltitudine di personaggi che un giorno giungono senza preavviso e ti stravolgono l’esistenza. Arrivano una mattina, a bordo di un grande pullman, dal quale scendono rumorosamente, eccitati per il ruolo che hanno ottenuto. E tu devi rassegnarti, devi occupartene, devi dargli da mangiare, devi ospitarli. Sei responsabile di tutto. Perché tu, appunto, sei lo scrittore.
Questa storia inizia nel febbraio del 2012, quando lasciai New York per andare a scrivere il mio nuovo romanzo nella casa che avevo appena acquistato a Boca Raton. L’avevo comprata tre mesi prima, coi soldi della cessione dei diritti cinematografici del mio ultimo libro, e, a parte qualche rapida incursione per arredarla nei mesi di dicembre e gennaio, era la prima volta che mi ci fermavo a lungo. Era una casa spaziosa, tutta vetrate, affacciata su un lago molto apprezzato dagli amanti delle passeggiate. Sorgeva in un quartiere tranquillo e pieno di verde, abitato perlopiù da pensionati benestanti in mezzo ai quali stonavo. Avevo metà dei loro anni, ma se avevo scelto quel posto era proprio per la sua quiete assoluta. Era il luogo che mi serviva per scrivere.
Al contrario dei miei soggiorni precedenti, sempre brevissimi, stavolta avevo molto tempo a disposizione e raggiunsi la Florida in macchina. I duemila chilometri di viaggio non mi spaventavano minimamente: negli anni precedenti, avevo fatto innumerevoli volte quel tragitto partendo da New York per andare a trovare mio zio, Saul Goldman, che si era trasferito nei sobborghi di Miami dopo la Tragedia che aveva colpito la sua famiglia. Avrei potuto fare quella strada a occhi chiusi.
Lasciai New York sotto una fitta coltre di neve, con il termometro che segnava -10°, e arrivai a Boca Raton due giorni dopo, nella mitezza dell’inverno tropicale. Ritrovando quel familiare scenario di sole e palme, non potei fare a meno di pensare a zio Saul. Mi mancava terribilmente. Ne ebbi la netta percezione al momento di lasciare l’autostrada per entrare a Boca Raton, quando fui tentato di continuare fino a Miami per rivederlo. Mi chiesi se, in occasione dei precedenti soggiorni, fossi davvero venuto per occuparmi dei miei mobili o se quello non fosse, in fondo, un modo per riallacciare i rapporti con la Florida. Senza di lui, non era la stessa cosa.
Un brano tratto dall'intervista di Giancarlo De Cataldo su la Repubblica
"Io sono lo scrittore" esordisce Marcus Goldman, nel presentarsi ai lettori. Scrittori protagonisti in "Harry Quebert" e anche in questo "Libro dei Baltimore". Perché la figura dello scrittore è così centrale nei suoi lavori?
«Credo perché attraverso una fase della mia vita nella quale sono molto attratto dalla questione dello scrivere e della scrittura. Però, vede, è molto difficile definire esattamente come scelgo il soggetto dei miei libri. Potrei dire, piuttosto, che è il soggetto a scegliere me. Voglio dire: è probabile che l'impulso venga dal subconscio, che sia la manifestazione del desiderio di esplorare zone che ancora non mi sono chiare.»
Un altro punto di contatto con "Harry Quebert", quasi una cifra stilistica, è la memoria...
«I ricordi aiutano a costruire la personalità di un essere umano, e quindi a costruire i personaggi. In tutti e due i miei ultimi romanzi i ricordi sono i mattoni di un passato sul quale si è edificato il presente.»
I passati, piuttosto, visto che lei si muove costantemente su più piani narrativi temporalmente intrecciati.
«Sì, non c'è presente senza passato. È l'unico modo che conosca per lavorare. Credo che in un romanzo non solo i personaggi, ma anche le radici delle loro azioni derivino dalle azioni passate. Non ci possono essere le une senza le altre.»