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Anno edizione: 2019
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Un diesel. Parte piano, ti prepara con calma, sottovoce, ti fa quasi pensare ad un certo punto che forse ciò che stai leggendo non era ciò che ti aspettavi, da questo libro… Ma dura un attimo: le pagine scorrono veloci e in un attimo si arriva al finale scioccante, e ti accorgi di esserci dentro dalla prima pagina. Un tema del quale in narrativa si parla relativamente poco, visto da una moltitudine di punti di vista, personaggi al limite delle esistenze tutti accumunati da un tragico filo rosso. Un ottimo esordio.
La storia non ha un vero e proprio inizio preciso. Possiamo dire che questo libro è la raccolta di un insieme di testimonianze, di indiani di oggi che hanno conservato dei frammenti delle loro origini e delle loro tradizioni o che si riscoprono tali durante il percorso stesso di questa storia. Non qui, non altrove riporta la vita di diversi indiani d’america moderni che sono collegati inesorabilmente l’un l’altro e che stanno per incontrarsi al raduno che si tiene ogni anno a Oakland, in California per ricordare a tutti ciò che sta andando mano a mano sempre più perduto. Chi sono i protagonisti di questa storia? Cosa li accomuna l’un l’altro a parte le loro origini indiane? Cosa succederà loro nel corso della storia e quali consapevolezze riceveranno da tutto questo? Lo stile è stato abbastanza semplice anche se un tantino artificioso. La storia si suddivide su tanti punti di vista che uno dopo l’altro si susseguono, ricorrendo a volte nel corso della lettura. Essendo tanti però, tendono a confondere un poco il lettore che, almeno all’inizio non riesce davvero a comprendere cosa sta succedendo. Eppure, nonostante questo sia strano e confusionario, funziona. E funziona molto bene. Perchè il lettore conoscerà diversi personaggi che sembrano avere l’unico punto in comune quello di essere indiani ma c’è molto di più. Torna a galla un’intera comunità e una serie di credenze che ognuno di loro credeva perdute o dimenticate. Tutti i personaggi si intrecciano tra loro in un modo o nell’altro con il fine comune del raduno Powwow ma, quando intrecciano le loro vite, intrecciano le loro esperienze e mettono a nudo se stessi, ritrovando le identità che, molto di loro, credevano di non avere o che non era così chiara come sembrava. Tommy Orange è la voce moderna e testimonianza di ciò che sono oggi gli indiani d’america o almeno quello che di loro è rimasto. Una storia che unisce diversi punti di vista e che racconta di identità, di speranza e di credenze. Da leggere.
Libro d'esordio di Tommy Orange, racconta la vita di un gruppo di indiani (per lo più di origine cheyenne) nell'attuale Oakland. Tante vite che si intrecciano per sbaglio, si allontanano, per poi confluire tutte nel powwow cittadino. Un libro spettacolare, dove si possono leggere secondi messaggi più o meno nascosti, o anche solo prendere la storia così come appare. Linguaggio fluido, poetico a tratti, istintivo quasi, ma mai complesso, mai di troppo, mai arzigogolato. Un bagno fresco, per gli occhi che leggono, ma amaro per la trama. Credo sia uno dei libri più belli che abbia mai letto.
Recensioni
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Di solito chi fa la storia incasina la geografia ed è quello che è successo in America da quando Cristoforo Colombo ha messo piede da quella parte dell’oceano. Questo di Tommy Orange, Non qui, non altrove (326 pagine, 18,90 euro), è un romanzo d’esordio, è stato scelto dal New York Times come uno dei migliori del 2018 ed è stato portato in Italia dalla casa editrice Frassinelli, ultima perla pescata da Giovanni Francesio (dopo La ladra di libri e, prima ancora, Il cacciatore di aquiloni) prima di traslocare a Mondadori.
Tommy Orange racconta l’attualità drammatica di una nazione e di un popolo senza Stato: una delle tante nazioni del genere in giro per il mondo, che spesso preferiamo ignorare; quando ci raccontano storie come questa può succedere di girarsi dall’altra parte, magari anche perché, in alcuni casi, non condividiamo il modo di in cui questi popoli si difendono, anche attraverso gesti violenti. Penso ai curdi, ai mapuche, ai tibetani, penso ai palestinesi. Quella degli indiani d’America è una nazione molto variegata, orgogliosa, la cui cultura è stata distrutta e umiliata nell’arco di qualche decennio da cosiddetti popoli civili, dagli europei. Eppure, leggendo questo romanzo si percepisce che resta qualcosa negli eredi dei nativi, qualcosa di vivo, che si agita, che col tempo si inacidisce e corrode l’interno di queste persone.
Non qui, non altrove è un romanzo molto spirituale e violento, è il tentativo di raccontare un riscatto che spesso è andato a vuoto, che si manifesta in tutta la frustrazione dei personaggi ed è figlio di una rabbia tenuta a bada a lungo, che spesso può sfociare anche in gesti violenti. Non è un romanzo di semplice lettura per tanti motivi, forse anche per questo non ha avuto molto successo commerciale in Italia, almeno fin qui, un successo che avrebbe meritato assolutamente.
Dal punto di vista narrativo ha una struttura molto particolare, verrebbe da dire a stella, con l’autore che parte dalle storie dei singoli protagonisti, parte da una punta e va verso il centro della stella, poi torna indietro, verso un’altra punta, poi torna verso il centro, fin quando tutta la storia ha i suoi protagonisti. Al centro della stella, al nucleo della storia stessa (un grande raduno degli indiani d’America) c’è un’esplosione dei fatti, poi si torna alle punte. I personaggi sono veraci, ben delineati, l’autore col suo modo di intrecciare le vicende, entrando e uscendo dalle singole vicende, non aiuta a identificarli bene, e questo potrebbe non aiutare, dare fastidio al lettore. A me piace pensare però che questa sia una scelta ponderata, che in qualche modo rifletta lo stato emotivo, la confusione identitaria che vive oggi, probabilmente, un ragazzo che ha nel Dna i geni dei nativi americani, che vive ancora in famiglie con determinate tradizioni, ma che poi viene disconosciuto non appena mette piede fuori causa.
Provo a pensare a una qualsiasi tradizione, a un qualsiasi rito (tra l’altro molto poetici, colmi di spiritualità) degli indiani d’America, al loro rapporto con la natura, con gli animali, col sole, col vento, alle loro danze e poi provo a pensare a questo ragazzo che esce di casa e si trova su una strada asfaltata di Oakland, dove si svolge il romanzo, con macchine sportive che sfrecciano accanto a lui e gli sputano addosso nuvole nere di smog. Sono cose assolutamente in controsenso fra di loro ed è comprensibile che non vivi bene, che non stai in pace con te stesso, non ti dai pace non appena conosci la storia della tua famiglia, del tuo popolo. Come fai a mettere assieme il tuo passato ancestrale e il tuo presente tecnologico nell’America di oggi?
Gli indiani d’America sono stati obbligati a cambiare con la violenza, con le umiliazioni patite. Tommy Orange sottolinea come negli stessi cognomi affibbiati dai colonizzatori ci sia una traccia di prevaricazione aberrante. I nativi avevano nomi di una poesia incredibile, tutti diversi tra di loro, Raggio di Luna, Toro Seduto, a volte anche una frase, oggi invece si chiamano Orange, Brown, Red Father, quasi uno sfottò, uno scherno alla loro stessa storia. Forse non è un caso che queste comunità di indiani inurbani abbiano tassi molto elevati di alcolismo, abuso di droghe, violenze, suicidi: probabilmente perché a questa gente sono state strappate con violenza le radici. È un romanzo molto doloroso, malinconico, quello scritto da Tommy Orange, che affronta questo tema senza vittimismi o moralismi, che spazia dalle difficoltà dell’integrazione all’emarginazione, passando per l’umiliazione di non essere nemmeno riconosciuti, perché spesso i nativi vengono scambiati, per le loro fattezze, con messicani o portoricani. Noi li abbiamo conosciuti come i cattivi dei film western, hanno subito un danno di immagine per il cui risarcimento non basterebbero i milioni di dollari delle riserve degli Stati Uniti. La storia è ben diversa, quello dei nativi è stato il primo genocidio dell’umanità: si calcola che ne siano stati uccisi tra i 55 e i 100 milioni nell’arco di pochi decenni.
L’unica cosa che non mi è piaciuta del romanzo è… il titolo italiano. L’originale è There there, citazione di una canzone dei Radiohead e riferimento alla scrittrice Gertrude Stein, che da bambina visse ad Oakland: il suo There is no there there è un lì che non è più tale, reso irriconoscile dallo scorrere del tempo; è quello che succede alla cultura nativa americana, non si riconosce più nello stesso posto a causa dei cambiamenti del tempo e non solo, anche per quelli apportati con violenza da chi è arrivato e ha invaso le loro terre. A chi piace leggere di questo mondo che non c’è più, e che invece resta nel cuore di tanta gente, suggerisco un altro romanzo Anima di Wajdi Mouawad, bellissimo, estremamente originale, per i punti di vista da cui viene raccontato; c’è una storia che lambisce il mondo dei nativi, una storia molto violenta in cui si mette in luce come fino agli anni Settanta il civilissimo Canada strappava bambini di quattro, cinque anni dalle riserve indiane, per “civilizzarli”, civilizzazione che consisteva nell’insegnargli la religione cristiana, le lingue, come si sta a tavola…
Recensione di Giovanni Di Marco
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