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Premetto che non ho ancora acquistato il libro ma ritengo di grande interesse e attualità sia il soggetto che la trama, per cui da domani sarà sulla mia scrivania. Quello che non ho apprezzato è invece il commento/recensione di un tale Rigus, smaccatamente anti-israeiliano (o anti-sionista, se preferite). Sono il primo a condannare l'aggressione dell'IDF a Gaza e a sostenere che Netanyahu e i fanatici ortodossi del suo governo tradiscono e insozzano il vero spirito di Israele e che, al contrario, il popolo Palestinese subisce dal 1948 le terribili conseguenze e le sventure della Nakba. Ma i cosiddetti Fratelli Arabi hanno mai fatto qualcosa per i Palestinesi,? E Hamas cosa fa, oltre ad attirare sugli innocenti le rappresaglie israeliane? Il popolo Palestinese viene sacrificato da decine di anni in olocausto al cinismo e all'indifferenza dei correligionari islamici (Iran in primis) che lo usano per alimentare l'odio fanatico delle loro masse contro Israele, in modo da mantenere indisturbati il potere assoluto con il quale le opprimono. Questa, e non altra, è la narrazione veridica della tragedia Palestinese. Il resto è demagogia e propaganda.
Svegliarsi una mattina nella propria casa, e come ogni mattina, iniziare l'avventura quotidiana della stagione, degli incontri consueti o desiderati, nella comunità di famiglie, di terra, di ritualità che ci appartiene; all’improvviso più nulla di tutto questo. Essere costretti a nascondersi, tacere, fuggire, a “serrare le mascelle”, perdere, perdere tutto, dalla dignità alla identità. Allora resistere, con ogni mezzo, accampati, violentati, affamati, seppelliti vivi, è imperativo dolorosissimo, è reazione vitale di ogni fibra dell’essere . “Ogni mattina a Jenin” è una lettura da cui non si può prescindere, che ci fa “fare i conti” con la storia di generazioni di palestinesi costretti a diventare dei senza patria, alimentare la furiosa rabbia e la tristezza estrema. Questa narrazione ci proietta alla storia e cronaca quotidiana della città emblema, Gerusalemme, la città che sa trasmettere, nonostante “il passato ardente e burrascoso”, dolcezza e umiltà, “desideri segreti”. In questo spazio si snodano i diversi filoni narrativi che ti avvolgono e ti travolgono, facendoti attraversare la storia di un conflitto mai risolto e penetrare dentro le cicatrici di un popolo e di ogni singolo personaggio. E il conflitto non è soltanto quello storico, ma quasi sempre interiore, di uomo, padre, donna, madre, figlia, che “squarcia” vesti, anime, volti. Libro struggente, intenso, che si radica nell’anima, come l’amicizia della protagonista Amal con Huda, come la narrazione della famiglia di Hassan e Dalia, del destino tragico dei due fratelli Yussef e Isma’il, che devono misurarsi con il capovolgimento delle loro vite. Eppure in questo gioco di specchi, tra arabi e ebrei, in tanta morte e terrore e distruzione, la scrittura di Susan Abulhawa è densa di poesia, di pudore, di profondo amore, quello che dà la forza di resistere, di continuare a cercare.
Plauso, mehercules, ininterrotto, scrosciante, come rombo di tuono. Abulhava ha finalmente squarciato il velo di omertà che copriva gli eccidi del popolo palestinese da parte dello stato sionista fin dalla sua presa di potere nel 1948-1949. L’autrice narra questa lunga scia di sangue sull’arco di tre generazioni, sino al 2002, epoca della Seconda Intifada (2000-2005) e della distruzione totale del campo profughi di Jenin. A chi, come Bernard-Henry Levy, ha duramente criticato quest’opera (storicamente ben documenta) si consiglia di leggere La Rabbia del Vento (di S. Yizhar, Einaudi 2005), scritta non da un palestinese, ma da un soldato israeliano comandato di far pulizia etnica ed espropri proprio nel 1948-49. L’episodio più straziante avvenne il 16 settembre 1982, quando le falangi ebree di Sharon accerchiarono i campi profughi di Sabra e Shatila, chiamando poi la Falange Libanese a compiere il lavoro sporco. La mattanza durò 2 giorni e furono massacrati donne, vecchi e bambini, poiché i militanti OLP erano stati trasferiti in Tunisia. Nessuno si salvò, poiché le truppe ebree sulle colline impedivano la fuga di ogni essere vivente, persone tutte inermi. Col beneplacito di Ronald Reagan. Così lo stato sionista di Sharon proseguiva lo sterminio del popolo della Palestina, iniziato migliaia di anni prima dal biblico Giosuè, il proto-nazista. Nonostante la stringa di orrori raccontata in questo romanzo storico, Abulhava stende un velo di pietà e misericordia su questi eventi, estendendoli anche agli aggressori ebrei, riconoscendo il loro martirio sotto Hitler (Shoah che però gli ebrei hanno fatto pagare agli innocenti palestinesi!). Il racconto si snoda con scrittura felice e fluida ed è raccontato in prima persona da Amal, la nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, internata nel campo di Jenin. Si era salvata poiché, ancora bambina, era stata trasferita in un orfanatrofio a Gerusalemme e poi emigrata in USA. Da leggere e pubblicizzare per non dimenticare.
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