Chi fugge davvero e chi effettivamente resta in questo terzo capitolo della storia di Elena e Lila? L'età adulta e il mondo esterno esercitano la loro forza centrifuga anche sulla comunità autosufficiente del rione, ma non toccano il cuore del rapporto tra le due protagoniste, che ne rende i profili reversibili e le vite misteriosamente speculari. E allora si può, come Elena, emanciparsi da Napoli, sposare un enfant prodige dell'accademia, gravitare tra Firenze e Milano nell'orbita colta e civile di una nuova famiglia "adottiva", per poi accorgersi che i conti con le origini non si chiudono mai, perché i padri continuano ad affiorare nei comportamenti dei figli, le madri nel corpo delle figlie, il dialetto nella lingua italiana. Oppure, come Lila, restare incastrata nei margini più poveri della città, mortificare la propria intelligenza in una fabbrica di salumi, e tuttavia sperimentare coraggiosamente il nuovo da qualsiasi parte arrivi, sia il linguaggio aurorale dei calcolatori elettronici o un ménage familiare senza vincoli matrimoniali né obblighi sessuali. Dopo il tempo dell'infanzia, dopo gli anni dei primi esperimenti sentimentali e sociali, Elena Ferrante fa scontrare le sue protagoniste con "la forza delle cose". Ci aveva abituati a una narrazione verticale, agli affondi psicologici e alle raffinate geometrie relazionali disegnate in ambienti circoscritti (il rione, Ischia, la Normale di Pisa) e adesso ci rovescia addosso un racconto tumultuoso e incalzante, morso dalla stessa fame e dalla stessa febbre che agitano il periodo coperto dal volume, gli anni 1968-1974. Dove due vite di donna si snodano in luoghi, contesti linguistici, ambienti sociali diversissimi, offrendole l'occasione di sperimentare (e di sovvertire) almeno quattro forme romanzesche: il romanzo coniugale, e più tardi d'adulterio, che ha per protagonista Elena; il romanzo-saggio della formazione di un'intellettuale (ancora Elena); il romanzo industriale di Lila nella fabbrica di Bruno Soccavo; il romanzo storico delle rivolte operaie e studentesche, dei primi gruppi femministi, degli scontri di piazza e del terrorismo nascente. Non era facile destreggiarsi tra registri così divaricati, meno che mai bucare il tessuto connettivo dell'immaginario di massa che si è saldato su quel pezzo di storia italiana. Stavolta Ferrante non usa il bisturi, ma il machete. Procede per scorci tagliati bruscamente, non rinuncia al confronto con lo stereotipo (l'assemblea alla Statale di Milano, il passaggio da Firenze di Nadia e Pasquale ormai avviati alla clandestinità), ha fiducia, da vera romanziera, sia nell'indicibile che nel dejà vu. E tiene insieme questa materia magmatica con un'incognita fissa che nasce da una scelta al tempo stesso estetica e ideologica: lo sguardo del "Soggetto imprevisto" scoperto da Elena nelle pagine di Carla Lonzi, che riconosce la rabbia, l'entusiasmo, l'infelicità dei tempi innanzitutto come rabbia, entusiasmo, infelicità dei corpi e che si sforza di tradurle in linguaggio. È allora che la storia di chi fugge e quella di chi resta, nella loro distanza siderale, tornano a convergere, e il romanzo di fabbrica di Lila a specchiarsi nel romanzo coniugale di Elena. Quando la faglia di genere affiora e attraversa con la sua forza atavica la faglia sociale e quella culturale, le due amiche geniali scoprono la stessa "solitudine femminile delle teste", lo stesso "sciupio" del "tagliarsi via l'una dall'altra, senza protocolli, senza tradizione": Lila nel tentativo di spiegare ai compagni che la servitù di un'operaia è anche servitù sessuale, Elena nel fronteggiare il risucchio della casa e della cura delle figlie che anche il suo colto marito, anche i suoi amici rivoluzionari sembrano accettare come dati di natura. Da quando anche la critica internazionale si è accorta della grandezza di Elena Ferrante e della felice temerarietà di questa sua impresa romanzesca, di cui si aspetta ormai solo l'ultimo capitolo, sono fioriti i paragoni più vari, da Balzac a Flaubert a Jane Austen; tutti ugualmente lusinghieri e tutti ugualmente dimentichi della modernità dell'Amica geniale, più vicina, semmai, alla quadrilogia di Antonia Byatt sulla vita di Frederica Potter (La vergine nel giardino, Natura morta, La torre di Babele, Una donna che fischia) per l'ambizione di innestare nel corpo del realismo ottocentesco inquietudini sperimentali più recenti, siano la rivisitazione di generi diversi, le continue oscillazioni tra piano narrativo e piano metanarrativo, le impercettibili sovrapposizioni delle voci narranti. "Voglio che lei ci sia, scrivo per questo. Voglio che cancelli, che asciughi, che collabori alla nostra storia rovesciandoci dentro, secondo il suo estro, le cose che sa, che ha detto o che ha pensato", scrive Elena mentre si accinge a raccontare l'esperienza operaia e politica dell'amica. E Lila, al termine di quel racconto: "Guardami finché non mi addormento. Guardami sempre, anche quando te ne vai da Napoli. Così so che mi vedi e sto tranquilla". Consapevoli entrambe, come la loro autrice, che per conoscere la propria storia una donna deve cercarla nello sguardo e nelle parole di un'altra. Beatrice Manetti
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