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Anno edizione: 2014
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«Ci sono libri che si leggono velocemente, che si divorano come si usa dire, questo no. Questo è un libro da leggere lentamente, con i tempi giusti, con le pause che lo stesso autore ci dice di fare, lasciando alcuni spazi bianchi dove respirare, attendere e poi riprendere.» - Giulia Mozzato per Maremosso
Un uomo e un bambino, padre e figlio, senza nome. Spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un'apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c'è storia e non c'è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio. Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all'olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d'infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola. Quando incrociano una carovana di predoni l'uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma è ormai una distesa d'acqua grigia, senza neppure l'odore salmastro, e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile...
Ho finito la strada. Ho pianto. Mi ha incupito, avrei dovuto lasciarlo. In un certo senso finisce bene. Dio, la spiritualità, la speranza affiorano solo in punto di morte, quando l'Uomo (un protagonista senza nome, a cui l'autore toglie anche questa misera dignità magari pensando di renderlo Uomo, universale) non ha più necessità, se non quella di aggrapparsi ad una nuova forma di speranza di sopravvivenza, quella dell'anima. Mccarthy chiama l'anima fuoco, in un mondo incendiato, mi sembra addirittura fuori luogo. Probabilmente proprio in questo qualcuno avrà visto una genialità. Questo libro vuole intenzionalmente ferire, non è geniale. Fa rabbia
Romanzo che ha superato le mie aspettative. Difficile smettere di leggerlo nonostante l'ambientazione e il soggetto non proprio 'facile'. Cormac McCarthy qui immerge il lettore completamente in un mondo post-apocalittico, quasi come se fosse un esercizio di stile: qualcosa ha avvelenato e bruciato gran parte della Terra e due personaggi superstiti devono cercare di sopravvivere giorno dopo giorno. La prosa è evocativa, trasmette un profondo senso di desolazione e disperazione. Il rapporto tra padre e figlio è rappresentato in modo commovente e autentico, portando il lettore a riflettere sulla natura dell'umanità e sulla forza delle relazioni interpersonali anche nelle circostanze più oscure.
Il genere post-apocalittico al quale fa capo questo libro non è nelle mie corde MA devo ammettere che ho amato questa storia di grande amore filiale e spirito di sopravvivenza narrata da McCarthy. Difficile non immedesimarsi nelle angosce di questo padre senza nome che arranca con il figlio su questa terra arsa, sterile e pericolosa, non si sa bene verso dove e per fare cosa, per trovare che se il mondo è finito ?! Il mio primo di McCarthy al quale ne aggiungerò altri.
Recensioni
Un romanzo splendido e faticoso che racconta il viaggio verso sud di un uomo e del suo giovane figlio in un mondo post-apocalittico in cui più nulla ha regole, nemmeno la natura.
«L'uomo avvitò il tappo di plastica, asciugò la bottiglia con uno straccio e la soppesò con la mano. Olio da usare per quella maledetta lampada, che rischiarasse i lunghi crepuscoli lividi, le lunghe albe grigie. Così puoi leggermi una storia, disse il bambino. Non è vero, papà? Certo, disse lui. Certo che te la leggo.»
La linguetta che avvolge il volume e che palesemente la casa editrice ha scelto in un secondo momento di aggiungere, ci informa che negli Stati Uniti questo romanzo ha venduto un milione di copie. Non è certo un motivo valido per incuriosire un lettore "vero", ma può attirare l'attenzione, questo sì. E far scegliere questo libro a chi sarebbe passato magari oltre. Un modo per evitargli una perdita notevole.
I lettori più attenti invece sapranno che è un romanzo da non perdere, che ha vinto il Premio Pulitzer nel 2007, che l'autore ha già pubblicato in Italia numerosi lavori e che il suo Non è un paese per vecchi è diventato un film dei fratelli Coen con Tommy Lee Jones e Josh Brolin.
Ci sono libri che si leggono velocemente, che si divorano come si usa dire, questo no. Questo è un libro da leggere lentamente, con i tempi giusti, con le pause che lo stesso autore ci dice di fare, lasciando alcuni spazi bianchi dove respirare, attendere e poi riprendere. Un romanzo splendido e faticoso che racconta il viaggio verso sud di un uomo e del suo giovane figlio in un mondo post-apocalittico in cui più nulla ha regole, nemmeno la natura.
Quante volte ci siamo soffermati a pensare a cosa sarebbe l'esistenza dopo un evento catastrofico che riazzerasse tutto, lasciando i sopravvissuti in balia di se stessi attorniati dalle macerie ormai inutili della civiltà dei consumi? Quanti autori si sono cimentati con questo tema e quanti film e addirittura serie televisive (I Sopravvissuti, per dirne una, ve la ricordate?) ci hanno raccontato un mondo in cui l'unica cosa che conta è restare vivi?
Con la visione di un pioniere (quella stessa ottica con cui McCarthy ci ha raccontato il west e la frontiera e la loro terribile violenza) ora narra di un mondo in cui è troppo pericoloso accendere fuochi e farsi vedere dagli altri superstiti, in cui bagnarsi potrebbe significare morire, in cui l'unica proprietà possibile è un vecchio carrello della spesa per trasportare le poche vivande e un telo di plastica per ripararsi.
È vero, molti scrittori hanno già affrontato questo tema ma nessuno, forse, come McCarthy.
Al centro del romanzo non c'è l'apocalisse, scontato evento del passato, ma un uomo e un bambino, le loro reazioni, la loro sensibilità, i piccoli gesti quotidiani, i pensieri e gli incubi, le sensazioni anche fisiche, la difficoltà di reperire cibo in un mondo senza vita in cui tutto è coperto di cenere e le poche cose da mangiare sono dentro scatolette e lattine o completamente rinsecchite. Il tutto intervallato dai ricordi meravigliosi e tragici del padre, che al figlio descrive una terra viva e luminosa che non ha potuto vedere.
Lungo la strada - che è emblema dell'americanità - un mondo di oggetti vuoti, di costruzioni abitate da fantasmi, da ombre che solamente chi è rimasto in vita può ricordare. Un mondo di alimenti a lunga conservazione che vengono dal passato e che prima o poi finiranno o saranno anch'essi immangiabili.
La madre del bambino ha scelto da tempo la morte, ha deciso di non sperare e li ha abbandonati. L'uomo e suo figlio invece vedono in qualche modo una luce lontana, malgrado tutto il grigio che li circonda, malgrado la completa assenza di alberi e animali, il freddo, un sole che fu brillante e ora è un lucore nel grigio del cielo. Cercano un calore che forse non troveranno, un oceano che li deluderà, ma continuano a cercare, trascinati da una forza che va al di là dell'istinto di sopravvivenza.
Come "un mondo morente abitato da nuovi ciechi, che lentamente si cancella dalla memoria" chi ricorderà cosa? Resterà qualcuno a raccontare?
Una domanda che si poneva, seppur in termini differenti, anche il protagonista de La nube purpurea di Matthew Phipps Shiel che per tanti aspetti si si può accostare a questo romanzo. A chi non l'avesse letto (e consiglio davvero di farlo) ricordo che è ancora in commercio in traduzione nell'edizione Adelphi del 1991.
E infine, mi permettete un azzardo? Leggete bene il testo de Il vecchio e il bambino di Francesco Guccini, che moltissimi ricorderanno a memoria. È il miglior riassunto possibile del romanzo che sin dalle prime pagine mi è sembrato il dilatarsi narrativo di questa meravigliosa canzone.
"Alla fine, la strada di ciascuno è la strada di tutti - scriveva McCarthy in Oltre il confine - Non vi sono viaggi isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non vi è un'altra storia da raccontare".
Ed è ciò che questo grande scrittore americano continua a raccontarci.
Recensione alla prima edizione del 2007 di Giulia Mozzato
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