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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2016
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In L'Università di Rebibbia, romanzo-verità di Goliarda Sapienza (1924-1996) di recente ripubblicato (2012) assieme a tutta la sua produzione, l'autrice documenta la sua reclusione in carcere avvenuta negli anni Ottanta per aver rubato dei gioielli a una conoscente. La descrizione dell'ambiente carcerario al femminile è ancora di stretta attualità. La Sapienza scrive della diffidenza, innata, che le carcerate nutrono nei confronti di chi viene da fuori. E' come se le nuove recluse dovessero subìre un esame da parte di coloro che abitano le celle da più tempo. Una volta superato con successo tale esame, l'umanità nascosta dell'ambiente della prigione si rivela, assieme a una verità che l'autrice ci tramanda. Ovvero che soltanto in carcere si ritrovano genuina umanità, solidarietà e verità, senza gli infingimenti della società reale. Prova ne sia che alcune cosiddette delinquenti abituali non recuperino, una volta scontata la loro pena, un proprio ruolo all'esterno, scontrandosi con solitudine ed emarginazione. Ecco perché molte di loro ,deliberatamente, reagiscono a questo disagio commettendo nuovi reati, nell'intento di rientrare in un mondo protetto fatto di aspri riti e di ruoli scomodi , ma nel quale esse si sentono pienamente accettate. In carcere vigono le differenze di classe che la società tende a stemperare. E così chi è "signora" per nascita o intellettuale, come la Sapienza, viene rispettata o invece vista con sospetto se indugia troppo in lavori manuali. Goliarda sembra quasi un'Alice nel Paese delle Meraviglie il cui candore ha un limite: l'esaltazione in alcune pagine di una realtà comunque cupa, estrema e brutta, in quanto negazione di libertà. Ad ogni modo l'opera supera l'esame del tempo, promuovendo la Sapienza grande scrittrice, in un riconoscimento purtroppo postumo.
Einaudi ristampa dopo trent'anni il romanzo che Goliarda Sapienza (intellettuale, attrice, femminista siciliana: donna libera e anticonformista) scrisse dopo la sua detenzione a Rebibbia per furto. Si tratta di pagine dense e veloci, dettate da un'ansia di resoconto e confessione che sopraffa anche la riflessione su ciò che significano colpa e castigo, pena e riscatto. "A sirene spiegate" viene introdotta nel carcere, dapprima in una cella isolata, costretta in un silenzio e in un'immobilità innaturali che debilitano da subito anima e corpo e annullano qualsiasi fantasia o progettualità di futuro. Quindi trasferita in una cella comune, costretta a una promiscuità fisica e di pensiero che dapprima la sconcerta e spaventa, ma lentamente finisce per conquistarla a una consapevole, riconoscente solidarietà.Le sue compagne di prigionia appartengono in genere al popolo, si esprimono in romanesco, con un gergo colorito e iniziatico: sono condannate per spaccio di droga,furto,rissa,prostituzione, omicidio. Ma ci sono anche le detenute politiche, con una loro rabbiosa coscienza critica e utopistica. Hanno soprannomi di fantasia: Marilyn, Mamma Roma, James Dean, Annunciazione, Suzie Wong... Si amano e si odiano tra di loro, si picchiano e si denunciano alle guardiane, si invitano vicendevolmente nelle celle a prendere il tè, organizzano un loro mercatino interno, scrivono leggono cantano e imprecano, o vivono in una sorta di immobile catatonia. Ma le differenze di classe e di cultura rimangono inalterate come nel mondo di fuori:"Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie,protetti fin da bambini dal bisogno vero,restiamo larve anemiche, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell'altro non s'è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio". Una scuola di vita, anzi un' università da cui si esce marchiati per sempre, diversi, e convinti che non si esiste se non nella collettività.
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