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Lasciar andare - Philip Roth - copertina
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Lasciar andare

Descrizione


Tradotto in Italia solo nel 2016 è il primo romanzo di Philip Roth scritto nel 1962. Ed è bello scoprire come la sua scrittura fosse tanto corrosiva e narcisistica anche all’inizio, è bello scoprire che è stato un enorme ego e una magistrale forza descrittiva della società borghese a farlo diventare in seguito un autore di culto per molte generazioni.

"In quel periodo ero sottotenente d'artiglieria, di stanza in un angolo desertico e sperduto dell'Oklahoma, e il mio unico legame col mondo dei sentimenti non era il mondo stesso, ma Henry James, che da qualche tempo avevo cominciato a leggere". Congedato poco tempo prima dall'esercito, ancora scosso dalla recente morte della madre, libero dai vecchi legami e ansioso di crearsene nuovi, Gabe Wallach entra nell'orbita di Paul Herz, un compagno di studi, e di Libby, la malinconica moglie di Paul. Il desiderio di Gabe di mettere in relazione l'ordinato "mondo dei sentimenti" che ha conosciuto nei libri con il mondo reale si scontra prima con gli sforzi degli Herz di fare i conti con le difficoltà della vita adulta e poi con le sue stesse relazioni sentimentali. La volontà di Gabe di essere una persona seria, responsabile e generosa col prossimo viene messa alla prova dal rapporto con Martha Reganhart, una donna divorziata, madre di due bambini, vivace, senza peli sulla lingua. La complessa relazione di Gabe e Martha, e la spinta di Gabe a risolvere i problemi degli altri sono al centro di questo primo, ambizioso romanzo, di Philip Roth: ambientato negli anni Cinquanta, tra Chicago, New York e Iowa City, è il ritratto di un'America definita da vincoli sociali ed etici profondamente diversi da quelli di oggi.
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Dettagli

2016
23 febbraio 2016
748 p., Rilegato
9788806204419

Valutazioni e recensioni

3,38/5
Recensioni: 3/5
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AdrianaT
Recensioni: 5/5

Riferito al mio commento sotto, ovviamente una stella è un errore. Non essendo possibile correggere, cerco di rimediare cosi: sorry!

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AdrianaT.
Recensioni: 1/5

Il buongiorno si vede dal mattino! La felice alba di Roth, i suoi inizi dall' impronta che a seguirla è stato un prezioso, stimolante viaggio nella scrittura, nella cultura, nei sentimenti, nell'animo e nella visione della vita di un uomo dalla mente brillante e inquieta. Una storia fiume spalmata su più di settecento pagine - credo il più corposo e prolisso romanzo della sua produzione -, e che, a parte qualche passaggio pesante e ripetitivo in alcune situazioni, ne conferma, fin dagli esordi, il magnifico, imperdibile talento narrativo.

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Raffaele
Recensioni: 4/5

Dopo aver letto tutti gli altri, leggere per ultimo il suo primo romanzo è stata una esperienza particolarmente piacevole ed interessante per capire chi era Philip prima di diventare (il grandissimo) Roth.

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Voce della critica

Per il suo corposo romanzo d’esordio (pubblicato nel 1962), Philip Roth sceglie un avviluppato intreccio di passioni e inazioni, ?che ha la sua origine nella New York degli anni cinquanta, una parentesi? a Iowa City e il suo centro e sviluppo a Chicago. Al centro, Gabe? Wallach, giovane benestante di famiglia ebrea, dottorando in letteratura e con una grande passione per Henry James. Da poco orfano di madre, Gabe decide di lasciare il padre, affermato dentista che mal elabora la propria vedovanza, e di trasferirsi nell’Iowa, per studiare e poi insegnare letteratura all’università. Qui l’incontro con Paul e Libby Herz, il primo di lui collega, la seconda nevrotico e insoddisfatto amore, per Gabe non vissuto, che gli cambierà per sempre l’esistenza, in un triangolo di attrazione e avversione intenso e senza vere uscite. Il desiderio di Gabe e Lizzy di vivere “il mondo dei sentimenti”; una lettera dal letto di morte della madre di Gabe infilata nella copia di Ritratto di signora che finisce fra le mani di Libby; il desiderio di Gabe di fare del bene, col rischio, che qui si avvera, di rimanere intrappolato nelle maglie della vita altrui – il tutto sullo sfondo dell’America (grigia) degli anni cinquanta, osservata da ravvicinata distanza, solo una decina di anni dopo (…).

Non è un romanzo facile, Lasciar andare, cupo e clastrofobico com’è, seppur pervaso da lampi di caustico sarcasmo e di grottesca comicità. Non è facile perché racconta squallore, tumulti emotivi, inferni domestici, solitudine, sogni infranti, disperazioni esistenziali (…). Ma è forse questo il suo grande pregio: mettere insieme l’alto delle idee e dei puri sentimenti e la realtà più cruda e dolorosa; di calare, fra aborti, divorzi, ricatti, adozioni e mercato nero, ragazzi poco più che ventenni, aspiranti critici e scrittori, e dipingerli mentre annaspano dentro un pantano a cui la letteratura non li ha abituati. Vederli mentre si avviluppano dentro se stessi e nelle relazioni con gli altri, che sono ossessive, nevrotiche, verbose e spesso disperanti come le loro personalità.

Occuparsi degli altri, pur con le migliori intenzioni, non è sempre la strada giusta, ci dice Roth, pena il rendersi infine conto della propria inutilità. Bisogna anche imparare a “lasciar andare”, a liberarsi dagli intrichi in cui ci costringiamo per presunta generosità, ma che è forse in fondo una irrequietudine e una ricerca di senso della nostra stessa vita.

Recensione di Cinzia Schiavini

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La recensione di IBS


Al centro di questo primo, ambizioso romanzo, di Philip Roth, ambientato negli anni Cinquanta, tra Chicago, New York e Iowa City, il ritratto di un'America definita da vincoli sociali ed etici profondamente diversi da quelli di oggi.

«Un libro ricco, pieno di eventi, divertente e triste allo stesso tempo: anche nelle sue scene piú drammatiche ha qualcosa che cattura l'attenzione» - Harper's

Gabe Wallach
Cova il malessere di tanti giovani ricchi ma mediocri: non sa bene che cosa fare di se stesso. […]. Ha un reddito, è in perfetta salute, e crede non solo nel perseguimento, ma nel raggiungimento della felicità. Purtroppo, ciò in cui crede non esercita un grande effetto sulle sue azioni. Se la sua buona sorte fosse inevitabile, non dovrebbe avere tante difficoltà e compiere delle scelte. Per essere un ottimista, è molto nervoso e indeciso. Poniamo che la felicità si metta a sculettare e danzare buttandosi allegramente giù da un burrone: lui la seguirebbe?


Al centro dello spazio rothiano sempre loro, le relazioni. Questo già dagli esordi, nel lontano 1962, quando lo sconosciuto Philip Roth aveva solo 29 anni e alle spalle un’acerba raccolta, Goodbye Columbus.
Universi piccoli, quelli del suo primo romanzo, costretti nelle ambientazioni grigie e umide degli anni Cinquanta americani e affollati da piani di relazioni portate al parossismo, che s’intrecciano, si accavallano, s’inseguono. Il giovane Roth, nonostante la prolissità degli esordi, mette in gioco fin da subito quelle che sarebbero state le carte della sua indagine letteraria negli anni a seguire: la religione (e in particolare il rapporto con l’ebraismo) il sesso, la morte, l’amore, il rapporto con la famiglia, la sofferenza empatica, l’ossessione per le relazioni e gli assilli dell’io proiettato nella società. Sono temi ancora acerbi, ma è proprio questo il momento per coglierli e riflettere a ritroso su questo grande scrittore, per penetrare nella nascita della sua poetica, grazie a questa nuova traduzione di Norman Gobetti per Einaudi.

Al centro della storia, Gabe Wallach: giovane e ricco ebreo di New York, Gabe è uno studente universitario annoiato dal suo status sociale e incastrato tra l’universo delle relazioni che gli gravita intorno e il disagio dell’immagine che di sé vorrebbe proiettare dentro questi legami. Cresciuto nel religioso credo letterario di Henry James, Gabe cerca di dare un ordine al suo mondo attraverso una catalogazione dei sentimenti messa a confronto con l’universo dei suoi libri, e sbriciolata in modo fallimentare nella realtà che lo circonda.
Il suo è l’affanno della proiezione di se stesso che va a infrangersi nel dolore della madre persa che ha lasciato l’ingombrante vuoto di un’autorità morbosa, e nel rapporto con il padre – dentista rinomato di New York – che si lascia sopraffare dalla malinconia e dal tedio piatto della sua vedovanza, attaccandosi a Gabe con tutto l’egoismo di un affetto che gli è dovuto per legame di sangue. Alla ricerca di un lancinante bisogno di colmare la solitudine, il padre pretende dal figlio tutto l’affetto possibile facendo leva sui sensi di colpa e ricambiando il suo amore con pulizie odontoiatriche, surrogato di un affetto che profuma d’infanzia e gesto manipolatore di autoritarismo paterno.
Al centro della vita di Gabe gravitano gli Hertz: una coppia di giovani universitari sposati, in crisi matrimoniale precoce e consumati dalla povertà che li opprime. Paul Hertz, schivo e difficile, sogna di diventare docente universitario, Libby malinconica ed egocentrica, vive nel piacere del lamento autoreferenziale e nel terribile rapporto con i suoceri che non hanno mai accettato la sua fede religiosa. Gabe gravita intorno a queste figure e, cercando sempre di fare di sé una persona seria e generosa con gli altri, finisce di spingersi un po’ troppo nelle vite altrui, saltando tra la ripetitività e la futilità delle vite che incontra, alla ricerca di risposte nascoste tra le noia e i limiti del destino. Senza forse trovarle realmente. Il suo complesso rapporto con Martha Reganhart, donna divorziata con due figli e dalla spiccata capacità oratoria priva dei filtri del “buon senso”, mette Gabe alla prova nella complessa crisi esistenziale che lo pone nel desiderio di voler aiutare a tutti i costi gli altri, forse allo scopo di soddisfare un certo appagamento personale.

Lasciarsi andare è un romanzo figlio dell’America di quei ponderosi anni Cinquanta, affannato tra New York, Chicago e Iowa City. È un romanzo modellato sulla spigolosa realtà delle relazioni sociali dell’epoca, irrigidite da quegli anni complessi e che solo la composita penna di Roth riesce a descrivere con le giuste sfumature della sua prosa acerba, ma accuratamente fluida, corrosiva e narcisistica, fino a toccare una morbosa autoreferenzialità. Un Roth aggressivo e accurato nell’introspezione psicologica, un accumulatore di personaggi ossessionati da loro stessi e dagli altri, sospinti nella sazietà dei dialoghi, densi e complessi. Un Roth disilluso e sommesso, sarcastico fino a logorare la pagina, un Roth intenso e amareggiato che serba ancora una fresca ironia non ferita da quelle lesioni dell’esistenza che incontreremo nella sua seconda pienezza letteraria. Un romanzo essenziale e necessario per cogliere in nascere la genesi del più grande scrittore vivente d’America, per aggrapparsi al bisturi della sua lingua. Precisa e tagliente. Rarefatta e spessa, con involontari riverberi del romanzo dell’io, dai sbiaditi contorni ottocenteschi.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Philip Roth

1933, Newark, New Jersey

Philip Roth (Newark 1933 - Manhattan 2018) è stato uno scrittore statunitense. Figlio di ebrei piccolo-borghesi rigorosamente osservanti, ha fatto oggetto della sua narrativa la condizione ebraica, proiettata nel contesto urbano dell’America dell’opulenza. I suoi personaggi appaiono vanamente tesi a liberarsi delle memorie etniche e familiari per immergersi nell’oblio dell’attualità americana: di qui la violenta carica comica, ironica o grottesca, che investe anche le loro angosce. Dopo un primo, felice romanzo breve, Addio, Columbus (1959), e i meno incisivi Lasciarsi andare (1962) e Quando Lucy era buona (1967), Roth ha ottenuto la celebrità con Lamento di Portnoy (1969).Dopo Il grande romanzo americano (1973, riedito in Italia da Einaudi nel...

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