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Anno edizione: 2020
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Spesso - le numerose volte che mi capita di passare per la vicina Carnia -, mi trovo a ragionare su come dovesse essere stato vederla brulicare di calmucchi, mongoli, kirghisi e circassi. Più che altro mi immagino, alla vista dei cammelli, le espressioni attonite dei carnici i quali, ancora oggi, quando vedono la tua faccia da "foresto", a denti stretti concedono un "mandi". Gente chiusa, diffidente e poco propensa a mescolarsi, i carnici; come spesso le popolazioni di montagna, però un po' di più. Da qui la curiosità di saperne ancora circa questa particolare invasione/occupazione romanzata romanticamente (puerilmente), con stile semplice e limpido (elementare) da Sgorlon. "Ma fra loro c’era anche un anziano, un uomo sui trent’anni [😳], o anche di più, con la barba e le vesti malridotte, sotto un logoro cappotto". Quando le forze in campo, su un territorio così ristretto e in condizioni così particolari sono partigiane, tedesche e cosacche che stringono a morsa una comunità locale, credo ci voglia una penna maggiormente autorevole e incisiva per avere un quadro più lucido e attendibile di quello fornito da questo romanzetto storico in salsa rosa, modicamente utile per il contenuto, ma letterariamente modesto fino alla noia. Mi è rimasto un certo senso di insoddisfazione e di incompletezza, per cui chiederò lumi al notevole e ammirato Magris che attraverso il suo 'Illazioni su una sciabola' sono sicura saprà darmi di più da tutti i punti di vista. "Il Friuli e la steppa si somigliano almeno in una cosa: nei nostri cimiteri sono seppelliti molti italiani, e nei vostri molti cosacchi. Una specie di gemellaggio della morte".
E' il libro che mi ha fatto conoscere Sgorlon.. un autore non tra i più noti, immeritatamente secondo me.. l'ho trovato sorprendente..da leggere assolutamente.
Un’anziana ebrea russa, Esther Heshel, fuggita dalla sua patria al tempo della rivoluzione bolscevica, se ne sta rintanata in una villa acquistata in un piccolo paese di montagna, nel Friuli, di cui significativamente non si conosce il nome, giacché quella villa e quel paese diventeranno un simbolo ed un approdo per tanti disperati. Marta, la domestica – siamo al tempo della Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943 – la rassicura che la guerra sta per finire, e quindi stanno per finire anche i pericoli per la sua razza, ma Esther ha “la sensazione continua di essere spiata, ricercata”. Non avrà tutti i torti, vedrete. I tedeschi di son fatti rabbiosi e violenti. I treni diretti in Germania sono pieni di zingari e di ebrei. Marta, restata a custodire la villa insieme con Anita, una giovane meridionale, il cui fratello Arturo, fidanzato di Marta, è stato inviato in Russia e lo si crede morto o disperso, dà rifugio ad Haha, un vecchio zingaro scampato ai rastrellamenti. Chi osserva i fatti ed agisce come dominante in questa storia, dunque, è una donna, a differenza di altri romanzi di questo autore che hanno come protagonista soprattutto uomini; allo stesso modo che, nella guerra partigiana che comincia ad intensificarsi, troviamo anche capi che sono donne, come Sonia, e pareva, come scrive Sgorlon, che “fossero uscite dalla consueta figura di madri e di mogli, tutte dedicate ai lavori casalinghi, per imbracciare le armi anche loro, e stare accanto agli uomini.” Marta sente “di appartenere a un modello di donna senza tempo, destinata in eterno a sanare come poteva le ferite della guerra.” E ancora: “Per lei, gli uomini che combattevano, vinti o vincitori, invasori o invasi, erano sempre degli sconfitti, perduti in illusioni strane e senza fondamento. Lei l’aveva capito da tempo, ma gli uomini no.” Succede che i tedeschi per snidare i partigiani fanno venire dalla Polonia, dai Balcani, ma anche dalla Siberia, i cosacchi, un popolo guerriero rimasto fedele allo zar e che vede nella rivoluzione bolscevica un
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